Mensile "Suono" – novembre 2008

Pubblicato il: 19/11/2008
 
 
Tra poco in edicola il quinto numero di SUONO Musica. Le voci e le sonorità che introducono Arenaria, anzi che ne sono parte fondante, spostano l’ascoltatore in una dimensione onirica che riesce a toccare punti nevralgici del proprio essere, soprattutto se si è gente del sud: come l’odore della pipa del papà, come pane e pomodoro e capperi di mio nonno, come l’arsura dell’aria che rimbalza sui muretti a secco pugliesi o siciliani che siano…

Mario Crispi 

Arenaria, il secondo lavoro solistico di Mario Crispi, membro degli Agricantus, è una cavalcata epica tra vero e immaginario dove suoni e rumori si fondono in sonorità indefinibili secondo le comuni catalogazioni. Per questo, quando il disco finisce, l’ascoltatore è sottoposto a quel brusco ritorno alla realtà tipico della fine di un buon libro, un buon film, una bella storia… Arenaria è il quinto titolo della collana SUONO Musica e il terzo della neonata etichetta SUONO Records e qui l’autore ce ne racconta la genesi.

Le sonorità dei luoghi dove sono avvenute le registrazioni di Arenaria sembrano esserne componente essenziale di questo lavoro. Vuoi spiegarci la logica con cui avete effettuato le riprese?
La registrazione fatta all’interno del mercato ittico è un buon esempio di come esistano due componenti nella ripresa sonora in un lavoro come questo: c’è un aspetto che riguarda l’azione in cui viene fatta la ripresa, una componente fatta dai suoni dell’ambiente. Il mercato è un grande edificio alla Cala di Palermo, essenzialmente di cemento armato, dunque con delle diffrazioni che aumentano molto e in maniera regolare la riverberazione. Il fatto è che comunque, all’interno di questo spazio, l’azione della compravendita del pesce deve essere ripresa per quello che è; dunque ci voleva una registrazione con una certa spazialità dal punto di vista soprattutto stereofonico che restituisse questa dimensione di grande ampiezza. La ripresa è stata fatta con un registratore digitale con una disposizione dei microfoni incrociati verso l’interno e riesce a dare una spazialità molto evidente.

Vi siete attenuti alle sonorità del posto o avete cercato di “piegarle” al vostro progetto artistico?
Ambienza e sonorità sono parti essenziali della sonorità di un luogo: la logica è stata quella di utilizzare il suono per quello che è quando ha una sua identità; quando invece l’identità non c’è, perdi ogni riferimento e puoi fare quello che vuoi… Ad esempio nelle registrazioni effettuate nella rotta della Gurfah c’erano dei suoni, che sono dati dagli abitanti naturali (vari tipi di uccelli, alcuni rettili…); poi ci sono anche delle riverberazioni date dalla vegetazione che sta all’esterno. Le sonorità prodotte dalla vegetazione mossa dal vento creano un ambiente molto particolare che diventano parte della colonna sonora, e questo lo si ritrova anche in altri luoghi dove si è registrato (la Tomba del Principe a Sant’Angelo Musciaro) dove addirittura entrano in ballo i suoni meccanici dei contadini con le loro motozappe… Nelle registrazioni ci sono questi fermenti! Altri tipi di ripresa hanno riguardato gli strumenti specifici: c’è la ripresa dell’orchestra d’archi effettuata con un AKG C34, che è un vecchio stereofonico (però con la capsula che si può ruotare!), e devo dire che la registrazione rende l’ambienza in cui è stata presa. Si tratta di Palazzo Mineo che ha una torre a cupola con una sua sonorità particolare. Lo stesso microfono è stato utilizzato nella grotta della Gurfah per ridare un’ambienza stereofonica. Per sonorità come quelle dei tamburi, che hanno una certa profondità, sono stati utilizzati anche degli AKG 414 che oltre a restituire tutta la profondità garantiscono anche uno spettro armonico abbastanza fedele. I tamburi sono di Massimo La Guardia: è lui che li costruisce e avevano delle pelli particolari, che sono quelle dei timpani dell’orchestra e dunque hanno una specificità timbrica e di profondità. La pelle dei timpani è trattata in una certa maniera perché lo strumento deve essere in grado di generare alcune frequenze: nei timpani devi suonare delle note precise e dunque la pelle viene trattata in maniera da tenderla e mollarla con il pedale e deve mantenere quel tipo di elasticità in modo che tu possa modulare la pelle a tuo piacimento.

Questa sensibilità ad aspetti tecnici della ripresa è una necessità legata al progetto specifico o è il risvolto di una sensibilità personale?
L’obiettivo con questo disco è stato quello di far suonare anche l’ambiente non solo i musicisti per restituire all’ambiente una sua pregnanza. La scelta di andare in posti particolari è stata dettata dalla voglia di coinvolgere il luogo, creare un’osmosi tra chi va a suonare e il luogo che lo ospita. Sono tutti una serie di valori simbolici che si sovrappongono ed è opportuno in questo caso cercare anche una certa cura nel rispettare quelle che possono essere le sonorità da tirare fuori. Poi ci sono anche degli strumenti che hanno una loro identità che va mantenuta: è il caso delle percussioni e degli strumenti a fiato come il didgeridoo uno strumento aborigeno che, però, in un contesto primitivo come certi luoghi che ci sono in Sicilia, sembra come se fosse nato lì! C’è una connessione talmente forte tra il luogo di origine, dove è stato inventato questo strumento, l’Australia, e certi luoghi del Mediterraneo come la Sicilia, che lega i due emisferi in maniera quasi indissolubile: proprio il trovarsi all’interno della terra fa sì che se tu hai strumenti che hanno a che fare con la terra questi risuonano in una maniera misteriosa eppure intimamente conosciuta.

Il disco è stato fatto in Sicilia: poteva essere fatto altrove?
Ritengo che posti di questo tipo siano disseminati, tantissimi, ovunque. Ogni regione ha i suoi luoghi che sono sicuramente da trasformare in santurari sonori!

Ma per te aveva più senso il fatto di percepire dei suoni, dei luoghi, un messaggio ancestrale o questo legame con la Sicilia?
Il fatto che sia in Sicilia ha la sua ragion d’essere perché Arenaria è un concetto legato ad una dimensione geologica, che però può essere traslato in tante dimensioni e una di quelle è la sedimentazione dell’essere. Noi siamo frutto di migliaia di anni di modificazioni sia fisiche che culturali; però se andiamo a scavare nel nostro essere possiamo ritrovare i nostri lati primitivi, nel bene e nel male. Ci sono degli aspetti che sono sicuramente fondamentali dell’esistenza, che sono quelli legati ad una fusione con la natura e con l’universo che nel mondo primitivo. O, almeno, questo è quello che emerge osservando le altre culture che hanno mantenuto questo rapporto. Di contro il nostro essere evoluti ci dà anche la possibilità di guardare alla nostra esistenza con una prospettiva che consente di riconoscere i vari elementi che ci compongono. Allora la sedimentazione è fondamentale ed è importante esserne coscienti: uno non è mai una sola fase ma tante fasi che sovrapponendosi danno la nostra ragione di esistere. Questo è il concetto che si cerca di esprimere con il lavoro musicale ma anche con l’attenzione tecnica nelle riprese utilizzata nel disco.

Questi suoni sono uno dei tanti strumenti o il motivo di fondo da cui parte la composizione: sono ispiratori o compartecipi?
Tutta la parte tecnica e strumentale in qualche maniera ha la sua componente maggiore che è quella di “strumento”. Qualcosa che serve per esprimere qualcos’altro, che sottende a dei contenuti, fermo restando che nel momento in cui si sceglie di utilizzare certi strumenti rispetto ad altri è perché quegli strumenti simbolicamente rappresentano anche dei contenuti. In questo caso forme e contenuto coincidono. Allora l’accostamento dei fiati e del violino non è solo con un violino ma è con il violino di Enzo Rao, un musicista che è un sedimento pure lui! Il suo passato musicale è un’esplorazione: quel che ho fatto io con i fiati lui l’ha fatto con il violino. Emergono tutta una serie di influenze che vanno dal Medio Oriente al Nord- Africa, alla Spagna. Insomma si spazia attraverso quelle che sono delle influenze culturali che si concentrano poi in Sicilia. Così pure il coinvolgimento di Massimo La Guardia e dei suoi tamburi. Sono tamburi a cornice di cui la Sicilia dei grandi rappresentanti come Alfio Antico (che ha curato queste tecniche strumentistiche) o Giuseppe Lo Meo, che suona la chitarra acustica però utilizzando delle tecniche con l’uso dell’archetto trasformandola in uno strumento ad arco, o Maurizio Curcio, che suona lo stick bass che è uno strumento particolare a metà strada tra la chitarra e il basso e che in qualche maniera aiuta a completare una componente armonico ritmica che il genere musicale proposto richiede. Lo stick bass non è solo un basso ma è a metà strada tra il pianoforte e lo strumento a corde; si suona con una tecnica ben precisa, quella del tapping, che richiede entrambe le mani che hanno la stessa funzione: creano la parte solista e pizzicano la corda.

Autore: Paolo Corciulo

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